venerdì 25 aprile 2025

La casa in collina – Cesare Pavese

“Già in altri tempi si diceva la collina come avremmo detto il mare o la boscaglia. Ci tornavo la sera, dalla città che si oscurava, e per me non era un luogo tra gli altri, ma un aspetto delle cose, un modo di vivere.” 

 “Con la guerra divenne legittimo chiudersi in sé, vivere alla giornata, non rimpiangere più le occasioni perdute.”

 “E sul fresco della collina, in quel vuoto, in quell’ansia che manteneva all’erta, ritrovavo un sapore più antico, contadino, remoto.” 

 “Più che di Cate m’importava del tempo, degli anni. Era incredibile. Otto, dieci? Mi pareva di avere riaperto una stanza, un armadio dimenticati, e d’averci trovata dentro la vita di un altro, una vita futile, piena di rischi. Era questo che avevo scordato. Non tanto Cate, non i poveri piaceri di un tempo. Ma il giovane che viveva quei giorni, il giovane temerario che sfuggiva alle cose credendo che dovessero ancora accadere, ch’era già uomo e si guardava sempre intorno se la vita giungesse davvero, questo giovane mi sbalordiva.” 

 “Passai dalla scuola, ma non c’era nessuno. Allora andai solo, per strade e caffè, sfogliai dei libri da un libraio, mi soffermai davanti a vecchie case che contenevano ricordi mai più rinvangati.” 

 “Pareva un luogo abbandonato, senza vita, una parte del bosco. E come succede di un bosco, si poteva soltanto spiarlo, fiutarlo; non viverci o possederlo a fondo.” 

 “Ma quel cauto equilibrio d’ansie, di attese e di futili speranze in cui adesso trascorrevo i giorni, era fatto per me, mi piaceva: avrei voluto che durasse eterno.” 

 “Tu te ne infischi; – mormorò senza guardarmi – ma hai ragione. Non hai mai visto far la fame né bruciare casa tua.”

 “La salvezza non venne. Vennero, bisbigliate, le prime notizie di sangue.”

 “Pregare, entrare in chiesa, pensai, è vivere un istante di pace, rinascere in un mondo senza sangue.” 

 “In sostanza chiedevo un letargo, un anestetico, una certezza di esser ben nascosto. Non chiedevo la pace del mondo, chiedevo la mia.” 

 “Ne abbiamo colpa tutti quanti – dissi – abbiamo tutti detto evviva.” 

 “Sapevo cos’era uno sparo e il suo sibilo.” 

 “Se un ignoto, un nemico, diventa morendo una cosa simile, se ci si arresta e si ha paura a scavalcarlo, vuol dire che anche vinto il nemico è qualcuno, che dopo averne sparso il sangue bisogna placarlo, dare una voce a questo sangue, giustificare chi l’ha sparso.”

 “Ci si sente umiliati perché si capisce – si tocca con gli occhi – che al posto del morto potremmo essere noi: non ci sarebbe differenza e se viviamo lo dobbiamo al cadavere imbrattato. Per questo ogni guerra è una guerra civile: ogni caduto somiglia a chi resta, e gliene chiede ragione.” 

 “Io non credo che possa finire. Ora che ho visto cos’è guerra, cos’è guerra civile, so che tutti, se un giorno finisse, dovrebbero chiedersi: E dei caduti che facciamo? perché sono morti? Io non saprei cosa rispondere. Non adesso, almeno. Né mi pare che gli altri lo sappiano. Forse lo sanno unicamente i morti, e soltanto per loro la guerra è finita davvero.”

1 commento:

  1. Ciao Pino, ottime sottolineature, in certi casi e con certi libri in certi contesti la voglia di leggere TUTTO è grande. Di Pavese ho amato gran parte della sua produzione...anche quella lirica.

    RispondiElimina

Per aspera ad astra