sabato 10 maggio 2025

La luna e i falò - Cesare Pavese

"Così questo paese, dove sono nato, ho creduto per molto tempo che fosse tutto il mondo. Adesso che il mondo l'ho visto davvero e so che è fatto di tanti piccoli paesi, non so se da ragazzo mi sbagliavo poi di molto... Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c'è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti..." 

 "La voglia che un tempo avevo avuto in corpo di sbucare per quello stradone, girare il cancello tra il pino e la volta dei tigli, ascoltare le voci, le risate, le galline, e dire "eccomi qui, sono tornato" davanti alle facce sbalordite di tutti - dei servitori, delle donne, del cane e del vecchio -, e gli occhi biondi e gli occhi neri delle figlie mi avrebbero riconosciuto dal terrazzo - questa voglia non me la sarei cavata più. Ero tornato, ero sbucato, avevo fatto fortuna, ma le facce, le voci e le mani che dovevano toccarmi e riconoscermi, non c'erano più. Da un pezzo non c'erano più. Quel che restava era come una piazza l'indomani della fiera, una vigna dopo la vendemmia, il tornar solo in trattoria quando qualcuno ti ha piantato." 

 "Mi ricordai la delusione ch'era stata camminare la prima vola per le strade di Genova - ci camminavo nel mezzo e cercavo un pò d'erba. C'era il porto, questo sì, c'erano le facce delle ragazze, c'erano i negozi e le banche, ma un canneto, un odor di fascina, un pezzo di vigna, dov'erano? Anche la storia della luna e dei falò la sapevo. Soltanto, m'ero accorto, che non sapevo più di saperla." 

 "Nuto l'ha molto quest'idea che una cosa che deve succedere interessa a tutti quanti, che il mondo è mal fatto e bisogna rifarlo." 

 "Ho sempre visto che la gente, a lasciarle tempo, vuota il sacco." 

 "Ho pensato sovente che razza di figli sarebbero potuti uscire da noi due - da quei suoi fianchi lisci e duri, da quel ventre biondo nutrito di latte e di sugo d'arancia, e da me, dal mio sangue spesso. Venivamo tutti e due da chi sa dove, e l'unico modo di sapere chi fossimo, che cosa avessimo veramente nel sangue, era questo. Sarebbe bella, pensavo, se mio figlio somigliasse a mio padre, a mio nonno, e così mi vedessi davanti finalmente chi sono." 

 "Gli diceva che sono soltanto i cani che abbaiano e saltano addosso ai cani forestieri e che il padrone aizza un cane per interesse, per restare padrone, ma se i cani non fossero bestie si metterebbero d'accordo e abbaierebbero addosso al padrone. Dove pigliasse queste idee non so, credo da suo padre e dai vagabondi; lui diceva ch'era come la guerra che s'era fatta nel '18 - tanti cani scatenati dal padrone perchè si ammazzassero e i padroni restare a comandare. Diceva che basta leggere il giornale - i giornali di allora - per capire che il mondo è pieno di padroni che aizzano i cani." 

 "E di nuovo, guardandomi intorno, pensavo a quei ciuffi di piante e di canne, quei boschetti, quelle rive - tutti quei nomi di paesi e di siti là intorno - che sono inutili e non danno raccolto, eppure hanno anche quelli il loro bello - ogni vigna la sua macchia - e fa piacere posarci l'occhio e saperci i nidi. Le donne, pensai, hanno addosso qualcosa di simile." 

 "Appena fuori della luce del locale, si era soli sotto le stelle, in un baccano di grilli e di rospi. Io avrei voluto portarmela in quella campagna, tra i meli, i boschetti, o anche soltanto l'erba corta dei ciglioni, rovesciarla su quella terra, dare un senso a tutto il baccano sotto le stelle." 

 "Così questo paese, dove non sono nato, ho creduto per molto tempo che fosse tutto il mondo. Adesso che il mondo l'ho visto davvero e so che è fatto di tanti piccoli paesi, non so se da ragazzo mi sbagliavo poi di molto." 

 "Chi può dire di che carne sono fatto? Ho girato abbastanza il mondo da sapere che tutte le carni sono buone e si equivalgono, ma è per questo che uno si stanca e cerca di mettere radici, di farsi terra e paese, perché la sua carne valga e duri qualcosa di più che un comune giro di stagione." 

 " e mi accorgevo in quel momento che anche il mare è venato con le righe delle correnti, e che da bambino guardando le nuvole e la strada delle stelle, senza saperlo avevo già cominciato i miei viaggi." 

 "E poi a me Nuto piaceva perché andavamo d'accordo e mi trattava come un amico. Aveva già allora quegli occhi forati, da gatto, e quando aveva detto una cosa finiva: "Se sbaglio, correggimi". Fu così che cominciai a capire che non si parla solamente per parlare, per dire "ho fatto quello" "ho mangiato e bevuto", ma si parla per farsi un'idea, per capire come va questo mondo." 

 "A quei tempi non mi capacitavo che cosa fosse questo crescere, credevo fosse solamente fare delle cose difficili come comprare una coppia di buoi, fare il prezzo dell'uva, manovrare la trebbiatrice. Non sapevo che crescere vuol dire andarsene, invecchiare, veder morire, ritrovare la Mora com'era adesso." 

 "Che cos'è questa valle per una famiglia che venga dal mare, che non sappia niente della luna e dei falò? Bisogna averci fatto le ossa, averla nelle ossa come il vino e la polenta, allora la conosci senza bisogno di parlarne e tutto quello che per tanti anni ti sei portato dentro senza saperlo si sveglia adesso al tintinnio di una martinicca, al colpo di un bue, al gusto di una minestra, a una voce che senti sulla piazza di notte." 

 "Lui non è andato per il mondo, non ha fatto fortuna. Poteva succedergli come succede in questa valle a tanti -di venir su come una pianta, d'invecchiare come una donna o un caprone, senza sapere che cosa succede di là dalla Bormida, senza uscire dal giro della casa, della vendemmia, delle fiere. Ma anche a lui che non si è mosso è toccato qualcosa, un destino -quella sua idea che le cose bisogna capirle, aggiustarle, che il mondo è mal fatto e che a tutti interessa cambiarlo... Capivo che da ragazzo...mi preparavo al mio destino, a vivere senza una casa, a sperare che di là dalle colline ci fosse un paese più bello e più ricco." 

 "Di tutto quanto, della Mora, di quella vita di noialtri, che cosa resta? Per tanti anni m'era bastata una ventata di tiglio la sera, e mi sentivo un altro, mi sentivo davvero io, non sapevo nemmeno bene perché. Una cosa che penso sempre è quanta gente deve viverci in questa valle e nel mondo che le succede proprio adesso quello che a noi toccava allora, e non lo sanno, non ci pensano. Magari c'è una casa, delle ragazze, dei vecchi, una bambina - e un Nuto, un Canelli, una stazione, c'è uno come me che vuole andarsene via e far fortuna - e nell'estate battono il grano, vendemmiano, nell'inverno vanno a caccia, c'è un terrazzo - tutto succede come a noi. Dev'essere per forza così. I ragazzi, le donne, il mondo, non sono mica cambiati. Non portano più il parasole, la domenica vanno al cinema invece che in festa, danno il grano all'ammasso, le ragazze fumano - eppure la vita è la stessa, e non sanno che un giorno si guarderanno in giro e anche per loro sarà tutto passato." 

 "Ma io, che non credevo nella luna, sapevo che tutto sommato soltanto le stagioni contano, e le stagioni sono quelle che ti hanno fatto le ossa, che hai mangiato quand'eri ragazzo."

 " La prima cosa che dissi, sbarcando a Genova in mezzo alle case rotte dalla guerra, fu che ogni casa, ogni cortile, ogni terrazzo, è stato qualcosa per qualcuno e, più ancora che al danno materiale e ai morti, dispiace pensare a tanti anni vissuti, tante memorie, spariti così una notte senza lasciare un segno. O no? Magari è meglio così, meglio che tutto se ne vada in un falò d'erbe secche e che la gente ricominci. In America si faceva così - quando eri stufo di una cosa, di un lavoro, di un posto, cambiavi. Laggiù perfino dei paesi intieri con l'osteria, il municipio e i negozi adesso sono vuoti, come un camposanto."

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